In ricordo di Don Gianfranco Ferrigno

Eminenza Reverendissima,
carissimi sacerdoti,
vi ringrazio anzitutto per la vostra presenza, che sentiamo non formale ma veramente come segno di partecipazione al dolore di tutti noi e – mi permetto di dire per l’istituzione che rappresento – in particolare dei catechisti del Centro Oratori Romani, per i quali don Gianfranco è stato padre, fratello, amico.
Chi oggi è qui conosce don Gianfranco, quindi ogni tentativo di disegnarne un ritratto sarebbe superfluo, se non vano. Dico vano perché Gianfranco era veramente una persona complessa – come ha scritto un suo amico prete – e, aggiungo io, com’è tipico di ogni persona estremamente sensibile; su questo io e lui ci intendevamo benissimo, senza bisogno di spiegarci.
Ciascuno di noi può dunque dire di aver conosciuto una parte di don Gianfranco, senza riuscire mai ad afferrarne il tutto, nonostante la confidenza di una vita: in fondo ogni persona è un mistero – questo lui lo ripeteva sempre – la si può intuire, mai possedere.
Gianfranco era una persona libera e innamorata della libertà; scriveva così in alcuni suoi appunti:
“La nostra vita può essere vissuta in due modi: o come un immenso ingranaggio senza significato, in cui tutto diventa banale, grigio, indifferente e già deciso in anticipo, oppure come una possibilità aperta che tramite il gioco della libertà dà significato e profondità a tutte le cose.
Nel primo caso ci si dispera, oppure ci si limita a far parte di una grande macchina che detta le regole e uccide la coscienza; nel secondo caso la realtà comincia a parlare, a suscitare interesse, a “giocare” con me, a rivelare un di più che scompagina ogni volta ciò che si riteneva tranquillamente saputo e acquisito.
Accade così il gioco stupendo della libertà, che intravede nelle esperienze più quotidiane un appello, un invito a prendere parte, a decidersi, a trasformare la realtà secondo una promessa di giustizia e di verità riconosciuta nella sua bellezza.
Gesù di Nazareth è amante di questo “gioco”, ne prende parte e lo porta a compimento, in attesa che qualcuno, uscendo dalla monotonia e dall’indifferenza dell’ingranaggio, decida di “giocare” con Lui, assumendo il medesimo sguardo che Egli possiede sulla vita.
La posta in palio è straordinaria: la piena riuscita di noi stessi e della nostra libertà!”
Don Gianfranco ha affascinato con parole come queste tutte le persone che ha incontrato nella sua vita e nel suo ministero. Molti ci ha conosciuti che eravamo solo dei ragazzi e ci ha reso uomini: certamente con la sua profondità teologica – solo il tempo ci consentirà di svelare la capacità singolare di don Gianfranco di tratteggiare un nuovo umanesimo in Gesù Cristo – ma anche con il suo sarcasmo irriverente, le sue provocazioni, le sue sigarette. Contraddizioni apparenti queste, contraddizioni solo per gli ipocriti: perché in Gianfranco tutto si teneva insieme, nella passione per la vita e per la verità che aveva ereditato dal Maestro.
Gianfranco è stato prete fino al midollo, senza una posizione da difendere, senza un ruolo a cui ambire: un amante del Signore e del suo popolo.
Oggi la Chiesa di Roma, qui presente nel suo vescovo e nei sui confratelli sacerdoti, glielo riconosce con affetto. Qualcuno potrebbe dire “tardivamente”… non è vero: i pastori buoni lo hanno sempre cercato nella discrezione di una telefonata o di una visita inattesa. A lui queste attenzioni nella malattia davano grande consolazione, perché si sentiva in tutto figlio di questa Chiesa; e i figli hanno sempre bisogno di un padre che li faccia sentire amati, che dica loro che sono cosa buona.
Certo don Gianfranco, oltre al dolore fisico ha vissuto anche una sofferenza spirituale, una grande solitudine. Tutti noi probabilmente oggi portiamo nel cuore un senso di colpa, piccolo o grande: forse avremmo potuto fare qualcosa in più, certamente avremmo voluto. In ogni caso sarebbe lui stesso a toglierci dall’impaccio, con la sua voce nasale:
“ma che stai a dì?”.
Inutile dirlo, quella voce ci mancherà: chi ci dirà una parola buona se non lui? A chi consegneremo le nostre pene quotidiane, a pensarle adesso così esili davanti il suo calvario? Io credo che potremmo condividere le nostre esistenze reciprocamente, in quella comunione di rapporto che don Gianfranco richiamava così spesso; sostenerci l’un l’altro ciascuno nel proprio dolore, che non può essere estirpato da questa vita, ma può essere accolto, come Gianfranco stesso ci ha mostrato.
D’altronde dove inizia la Chiesa? Se rispondessimo istintivamente “a Pentecoste!” don Gianfranco non esiterebbe ad appellarci “capre! capre! capre!”; la Chiesa – ci ha insegnato – nasce con Maria e Giovanni sotto la Croce, allo spirare del Signore.
Così, ora che Gianfranco ha consegnato il suo spirito, su questo “Golgota” può nascere una comunità nuova: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24).